Circa due settimane fa, ho riattaccato un numero di gara alla mia Mtb. Avevo lasciato le competizioni proprio con l’inizio del Caveja Bike Cup nel lontano 2013, quel campionato tanto cercato tra pochi amici per avere delle gare di Cross-Country in una zona dove il Cross-Country non esisteva più. Da giovane avevo corso un po’ ovunque. Da Nalles, a Montichiari, passando per Grotte di Castro, fino in Puglia. In ogni parte d’Italia tranne che vicino casa. Dicevo allora, che sarebbe stato bello avere un campionato di XC nel raggio di 20 km. E così, abbiamo fatto. Ben presto però mi resi conto che o diventavo organizzatore, o continuavo ad essere un corridore. Così dopo un po’ di tempo mi sono dedicato a quella passione nascente strettamente collegata a quella della Mtb praticata. Ho smesso con tanti chilometri nelle gambe, senza famiglia. Ho ripreso con 10 anni in più, pochissimi chilometri e una famiglia, e oggi, vorrei raccontarvi perché per me quei 60 minuti di fatica sono così importanti…

L’arte di far fatica

Viviamo in un’era dove un prodotto che ci semplifica la vita, è un prodotto vincente. Lo hanno scoperto i nostri nonni, con le prime lavatrici e lavastoviglie, lo scopriamo noi oggi con i Pc, l’intelligenza artificiale e (nel nostro mondo) le e-Bike. Siamo così ossessionati dal benessere, che siamo disposti ad indebitarci per averlo e stare al passo con tutti quelli che chiamiamo amici. Perché al giorno d’oggi l’apparire è più importante dell’essere. In tutto questo però, che nell’ordine delle cose può anche essere un beneficio, facciamo sempre più fatica a sopperire alle difficoltà che la vita, chi più, chi meno, ci impone. Non c’è ricchezza, etnia o religione che si salvi. Tutti, nessuno escluso ha a che fare con i propri problemi più o meno grandi. E sembrerà strano, ma la fatica dello sport è strettamente correlata alla fatica nella vita.  Se perdi quell’allenamento, quella voglia, quella capacità di rispondere alle difficoltà che lo sport di pone, probabilmente anche nella vita di tutti i giorni farai più fatica.

Perchè amo il Cross-Country

Perché amo il Cross-Country? Perché è da un giro all’altro, passando sempre sullo stesso percorso che imparo ogni volta qualcosa di nuovo. Ricordo quasi tutte le gare che ho gareggiato in questi 30 anni, perché ogni fatica fatta, è stata una storia a sè. Anche se debbo dire, che c’è un filo conduttore che quasi sempre si manifesta e che, pur avendo tante storie diverse, alla fine le accomuna tutte.

In queste due domeniche di rientro per esempio, il filo conduttore è stato il medesimo. Il primo giro è quello dove si aprono i rubinetti. Chi dall’ansia, chi dall’adrenalina, non c’è un atleta che nel primo giro di una gara di Cross-Country non dia l’anima. Tuttavia, qualche minuto dopo che i battiti sono andati a regime, il senso di affaticamento comincia a pervadere il corpo. In senso oggettivo con una eccessiva sudorazione e respirazione corta. Nella parte più profonda di noi stessi con le nostre capacità personali di sopperire al dolore. Quando termini il primo giro e pensi che ne dovrai fare anche cinque o sei, l’affaticamento lascia spazio ad una sorta di avvilimento, che ti fa entrare nel periodo più duro e buio di una gara di Cross-Country. Per i più allenati questo stadio è meno sentito, ma chi prima, chi dopo, tutti ci passano. Sei nel momento in cui la tua massima espressione fisica inizia a fare i conti con l’affaticamento. Dove le gambe fanno male, i polmoni sono contratti, il cuore è al massimo. Li alla maggior parte degli atleti avviene il cedimento emotivo, chi in piccole dosi semplicemente abbassando il ritmo della propria gara, chi con il ritiro. Già perché ad un certo punto pensi semplicemente chi te la deve aver fatta fare, una fatica del genere e semplicemente a volte, molli!

In questa presa di coscienza, di una durata medio lunga impariamo una cosa fondamentale: ad assumerci le nostre responsabilità ed a risolverci un problema da soli. Il ritiro di una gara è sempre ponderato da una scelta, una decisione che a volte è semplicemente più prevalente sul resto. Si ritirano tutti: i professionisti è gli amatori alle prime armi. Non è mai solo una questione di fisico, ma soprattutto di psiche. Se però passiamo questo scalino portato da una fatica fisica innalzata al limite, poi ci resettiamo, troviamo il nostro ritmo, facciamo la nostra tattica e, salvo problemi esterni, arriviamo all’arrivo, dove inizia il momento più bello della nostra giornata. Sì perché quando il cuore di abbassa definitivamente e le gambe sono ancora calde, li iniziamo a prendere coscienza di una soddisfazione unica. Ripercorriamo per un millisecondo il momento in cui volevamo mollare e una ventata di soddisfazione di pervade per non averlo fatto, per non aver mollato. Ci congratuliamo con i nostri avversari, perché sappiamo che anche loro hanno passato quello che abbiamo passato noi, ed alla fine siamo soddisfatti lì fermi a “goderci il nostro panorama”. Certo le prime volte è dura sì. Si viene sconfitti, si arriva dietro il gruppo e si viene doppiati. Nello sport non ci si inventa nulla. Prima di arrivare a qualsiasi tipo di successo, bisogna passare prima dalla sconfitta. Ma è proprio la sconfitta, mista ad una sana fatica, che da la benzina giusta per migliorarsi gara dopo gara e che ci stimola ad impegnarci sempre di più.

Vi ho raccontato perché quei 60 minuti da gara sono così importanti sì, ma non perché lo debbano essere anche fuori da una gara di bicicletta. Semplicemente perché quello che viviamo fisicamente in un cross-country, è una parafrasi della vita di tutti i giorni. Perché tutte le volte che “teniamo botta” cresciamo un po’.

Continuate quindi a pedalare, continuate a fare fatica, continuate a trasmettere a chi non sa cos’è la fatica, il valore di un qualcosa di unico e di vero. Magari andrà male una volta o dieci volte, ma alla fine, capirete che la cosa che vi fa stare bene è proprio questa…